Una donna sola danza, danza con i suoi fantasmi in una notte d’inverno. Scrittrice, madre, moglie, figlia, donna inquieta, poetessa. Fragile e risoluta. Silvia Plath ha attraversato tutti gli stadi dell’esistenza come una farfalla notturna va alla lampadina: bruciandosi. Nel 1963, a 31 anni, si è suicidata lasciando una marito e due figli in tenera età. Non vogliamo ricreare un santino agiografico. Ma nel suo essere donna, alla soglia delle grandi trasformazioni degli anni 60, Sylvia Plath ha toccato tutte le grandi contraddizioni che poi avrebbero segnato generazioni di giovani.
Il suo gesto estremo nulla toglie, e aggiunge, alla sua sofferta ricerca di una vita più giusta. Cosa vuole dirci con il suo gesto estremo? Quale enigma nasconde la sua tragica fine?
Tutti noi viviamo in bilico tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione.
L’ultima Notte – Recensione a cura di Laura Morandi
“Come può il corpo toccare il fiore, che soltanto lo spirito riesce a sfiorare?”
Parla Sylvia Plath, poetessa negli anni ’50 del 900, citando Tagore. È la notte dell’11 Febbraio del 1963, la notte raccontata sulla scena. La scenografia è candida, l’allestimento è umile e ricoperto di lenzuoli; una scene luminosa, buona, dal retrogusto di oniricità ripreso anche nelle vesti. Cosa si affacenda nell’animo di questa donna, unico personaggio dello spettacolo “L’ultima notte” diretto da Renzo Filippetti? Una lotta costante di buio e luce, giusto e sbagliato, bene e male; Sylvia ripercorre i momenti salienti della sua vita, tra danze liberatorie, possessioni rituali, conati di nausea e confusione. Ricorda il padre e le sue enormi e lucide scarpe nere; pensa alla sua carriera e al suo nascondersi dietro altri volti, altri personaggi, altre vite da lei create; ripensa al marito, e alle lunghe serate di silenzio che lui occupa in lettura e lei in cucito; ripensa ai figli e alla maternità, e al sentirsi strozzata da sè stessa, dalla rigidezza dei ruoli, dall’essere figlia, madre, moglie, scrittrice. Ruoli e obblighi, pensieri che vorticano nell’immobilità di una stanza chiusa, scenario di nascita delle sue poesie.”Il buio filtra dalle fessure, non possono contenere la mia vita”, ripete, e questo è il senso, il senso che la vita non possa essere contenuta, che più la rinchiudi, più la rendi schema, più lei si ribella, straborda, e non puoi più essere madre o figlia, o scrittrice, puoi essere solo vento, spirito: libera. E Sylvia ombattuta, in questa notte, tra luci e ombre, tra sorrisi, isteria e introspezione, sceglie la sua libertà, libertà che ha lo stesso volto della morte. Quella notte, la sua “ultima notte”, dopo aver portato latte caldo ai bambini ancora molto piccoli, la poetessa accende il gas e si abbandona. Sylvia sta scappando dalla vita, dalle sue responsabilità, o è solo coraggio, coraggio di ribellarsi alla banalità borghese degli anni ’60? Non sta a noi rispondere, ma lei parla proprio di coraggio, poco prima di morire, quando si immedesima in Maria Maddalena, personaggio controverso, icona cattolica ma anche profana, come lei divisa tra luci e ombre, e Spettacolo evocativo, e pieno di passione quello andato in scena giovedì 6 novembre alle 20, presso il Teatro Ridotto di Lavino (Bologna), più facile da apprezzare se si ha confidenza con la storia di Sylvia Plath, in quanto opera biografica. L’attrice Lina della Rocca, nei panni di Sylvia, ha saputo ricreare, sola, il peso della confusione e delle battaglie, che questa donna di particolare